LYNDON JOHNSON : La promessa non mantenuta
Il 22 novembre 1963, giurando sull’aereo presidenziale di fianco a Jacqueline Kennedy ancora sporca del sangue del marito, il texano Lyndon Johnson assumeva su di sé il gravoso compito non solo di raccogliere un’eredità che in politica estera era fra le più complesse e variegate mai conosciute dal suo paese, ma anche quello di mantenere, di fronte all’opinione pubblica, volontà e promesse per una sincera democratizzazione interna.
L’aspetto più scomodo della successione – che si rivelerà essere anche il più tragico – era comunque l’impegno americano in Vietnam, all’epoca articolato in un contingente di 16.000 uomini denominati con arguzia “consiglieri militari”, appartenenti in realtà alle truppe speciali dei “Berretti Verdi”. Tale coinvolgimento in una guerra sempre più estesa e niente affatto ben instradata espresse subito quella dicotomia che Kennedy e prima ancora Eisenhower s’erano permessi di evitare: ritirarsi o impegnare truppe da combattimento.
Scelto da John Kennedy come suo secondo più per convenienza politica che per affinità intellettuale – furono infatti determinanti ai fini dell’elezione i voti degli Stati del sud attirati su di sé da Johnson – il nuovo presidente considerava l’Indocina uno dei campi di battaglia della guerra fredda; fedele seguace o intontito prigioniero, come ogni leader statunitense del tempo, della teoria del domino, riteneva che la perdita del Vietnam del Sud in mano comunista avrebbe costituito una minaccia per altri stati nella regione e messo in pericolo la posizione stessa dell’America nel mondo. Inoltre, alla stregua del suo predecessore, credeva che un fallimento in Vietnam avrebbe causato al suo partito gravi ripercussioni politiche a vantaggio dei Repubblicani, i quali già in passato avevano accusato i Democratici di essere i responsabili, col loro lassismo in politica estera, dell’avanzata comunista in Asia; Johnson ritenne così necessario ampliare subito l’impegno statunitense per salvaguardare il regime di Saigon.
Tuttavia alla fine del ’63, benché nei confronti della guerriglia filocomunista e dello stesso Vietnam del Nord il Sud godesse del controllo dello spazio aereo, di un notevole vantaggio nel potenziale umano[1] come negli armamenti, non si erano raggiunti apprezzabili passi avanti nella lotta ai combattenti vietcong che seguitavano a compiere attacchi ed atti di sabotaggio ed erano ormai riusciti a raccogliere sistematicamente imposte dalla popolazione civile delle campagne nelle quali si nascondevano. Sia il segretario alla Difesa McNamara che il direttore della CIA McCone fecero dichiarazioni pessimistiche alla fine dell’anno, il primo arrivando addirittura a dire che senza un deciso cambio di rotta gli Stati Uniti avrebbero potuto trovarsi di fronte ad una vittoria dei comunisti nel giro di tre mesi.
A ciò si dovevano aggiungere i colpi di stato susseguitisi con regolarità nei governi sudvietnamiti[2] ed il fatto che ogni nuovo regime prosciugasse parte delle risorse stanziate nella lotta ai comunisti per difendersi invece dai rivali politici. Anche su indicazione dei servizi segreti e dei suoi consiglieri, Johnson incominciò quindi a pensare seriamente che solo attraverso un’imponente e diretta pressione militare nei confronti del Vietnam del Nord si potesse invertire il corso della guerra.
Le intenzioni del presidente erano però al momento smorzate e ricondotte all’attesa dall’imminente campagna elettorale per le elezioni del ’64; egli voleva certo evitare una vittoria comunista ma temeva che una drastica escalation dell’intervento bellico americano avrebbe portato a reazioni violente in patria in cui il movimento per la pace e quello per i diritti civili vivevano ormai in una simbiosi quasi totale. Tuttavia l’occasione di intervenire e passare da una guerra non dichiarata ad una ufficiale presentata come legittima si offrì poco dopo, nell’estate del ’64. Dall’anno precedente mezzi della marina americana sostenevano pattugliamenti finalizzati ad intercettare con dispositivi elettronici le comunicazioni nordvietnamite; durante una di queste incursioni intorno al Golfo del Tonchino, il 2 agosto, alcune navi norvietnamite attaccarono il cacciatorpediniere americano Maddox e due giorni dopo sia questo sia il Turner Joy riferirono di trovarsi sotto attacco nemico durante una tempesta notturna[3]. L’immediata rappresaglia ebbe prima la forma dei bombardamenti aerei (5 agosto) ordinati da Johnson contro basi navali e depositi di carburante, poi (7 agosto) la presentazione al Congresso della Risoluzione del Golfo del Tonchino.
Tale Risoluzione recitava:
“Premesso che unità navali del regime comunista in Vietnam, in violazione dei principi stabiliti dalla Carta delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale, hanno deliberatamente e ripetutamente attaccato navi statunitensi legittimamente presenti in acque internazionali ponendo così una grave minaccia alla pace internazionale; premesso che questi attacchi fanno parte di una campagna premeditata e sistematica di aggressione che il regime comunista del Vietnam del Nord contro i suoi vicini e le nazioni che ad essi si uniscono a collettiva difesa della loro libertà; […] di conseguenza il Senato e la Camera dei Deputati degli Stati Uniti d’America riuniti in congresso deliberano che il Congresso approvi e sostenga la decisione del Presidente, in quanto comandante in capo, di adottare tutte le misure necessarie per respingere attacchi armati contro le forze degli USA e per prevenire ulteriori aggressioni.”[4]
Lo scontro nel Golfo del Tonchino, vero o presunto, aveva quindi offerto la tanto auspicata provocazione costituendo nell’immaginario collettivo americano – con le dovute proporzioni – ciò che la tragedia di Pearl Harbour aveva rappresentato per la Seconda Guerra Mondiale: un’offesa immotivata proveniente da un paese antidemocratico, la conseguente giustificazione all’impegno bellico nazionale. Grazie anche all’ingannevole testimonianza di McNamara circa la reale entità dell’aggressione, il Congresso approvò di fatto, con due soli voti contrari al Senato, l’inizio ufficiale della guerra americana in Vietnam.
In periodo di campagna presidenziale la Risoluzione ebbe un doppio positivo ruolo per la figura di Lyndon Johnson: da un lato tolse forza alle critiche che gli provenivano dal suo avversario repubblicano Barry Goldwater, il quale aveva sempre invocato un’intensificazione militare del conflitto; dall’altro gli permetteva di presentarsi come un candidato democratico moderato ma affidabile, che non cerca la guerra ma certo non si tira indietro se aggredito. In qualità di attento prosecutore della politica di John Kennedy in fatto di difesa della minoranze e di fedele difensore del ruolo scelto dalla Storia per il suo paese, quello di garante della libertà, Johnson stravinse le presidenziali alla fine del ’64 senza poter tuttavia, né ora né poi, risolvere il problema fondamentale lasciatogli in eredità – la presenza statunitense in Vietnam.
Il tentativo di un allargamento limitato del conflitto mirante a rafforzare il governo di Saigon si rivelò ben presto un’illusione dietro la quale s’aprì la voragine più profonda di tutta la storia americana. L’operazione Rolling Thunder[5] inaugurata da Johnson nel febbraio del ’65 durò oltre tre anni, fino all’ottobre del ’68, nei corso dei quali 600.000 tonnellate di bombe vennero sganciate sul Vietnam del Nord. Dal ’65 in poi il numero di soldati americani inviati nel Sud per combattere direttamente i vietcong continuò a salire esponenzialmente raggiungendo la cifra di oltre 500.000 unità nel ’68; la chiamata alla armi di un’intera generazione prevedeva 35.000 cartoline di precetto ogni mese. Oltre ai battaglioni ed a morti, su ambo le parti, crebbe anche la spesa bellica. Le stime dei consiglieri militari di Johnson all’inizio della Rolling Thunder valutavano in 2 miliardi di dollari annui il necessario sforzo militare; nel ’67 gli Stati Uniti spendevano ormai questa somma al mese. Oltre a ciò occorre sottolineare come tale fiducia nell’efficacia dei bombardamenti fosse assolutamente mal riposta: l’economia prevalentemente agricola del Vietnam del Nord aveva pochi obiettivi significativi da offrire alle incursioni aeree, incapaci anche di chiudere le vie per cui soldati e rifornimenti raggiungevano il sud lungo il “sentiero di Ho Chi Minh”.
A questo punto, anche se inizialmente molti americani avevano appoggiato la politica di escalation di Johnson, il paese cominciò ben presto a chiedersi il senso di un intervento ordinato per mantenere in carica un governo repressivo come quello del Sud. A rendere ancora più acuta la presa di coscienza americana della guerra, inoltre, non c’erano solo i costi sempre più elevati in termini economici – ogni dollaro di danni inflitto al Vietnam del Nord comportava 10 dollari di spese belliche agli Stati Uniti[6] – ma anche e soprattutto le tremende conseguenze umane fatte conoscere alla nazione dai servizi televisivi che mostravano giornalmente immagini di brutalità ed orrore.
Risucchiato in una guerra che per principio non poteva perdere[7] né sembrava ormai in grado di vincere, Johnson vedeva anche sgretolarsi dietro di sé quell’unione di sostegno politico e speranza individuale che molti americani avevano costruito e mantenuto intorno a lui ed alla sua amministrazione. La serie di riforme varate, la cosiddetta Great Society (Grande Società), articolata sul completamento della legge sui diritti civili (Civil Rights Act), sull’introduzione delle borse di studio, su un generale miglioramento del sistema scolastico, sull’istituzione del sistema sanitario, sull’integrazione delle minoranze quali l’afroamericana e l’ispanica, sembrò non bastare di fronte al dolore provocato nei confronti dei vietnamiti e subito anche di migliaia di famiglie americane. Le proteste contro la guerra si susseguivano infatti nelle grandi città e nei campus universitari accompagnate dal ritornello: “Hey, hey, LBJ, how many kids have you killed today?” [Hey, hey, LBJ, quanti bambini hai ucciso oggi?].
Valutando i bombardamenti sul territorio argomenti sufficientemente convincenti nei confronti della controparte per intavolare trattative di pace favorevoli all’immagine dell’America, Johnson l’8 febbraio 1967 propose con una lettera una serie di negoziati tra Stati Uniti e Vietnam del Nord. L’immediata risposta di Ho Chi Minh mostrò i saldi propositi del suo popolo:
“Il Vietnam si trova a migliaia di miglia dagli Stati Uniti. Il popolo vietnamita non ha mai fatto del male agli Stati Uniti. Ma, contrariamente alle promesse fatte dai suoi rappresentanti alla conferenza di Ginevra del 1954[8], il governo degli Stati Uniti è incessantemente intervenuto in Vietnam, ha scatenato ed intensificato una guerra di aggressione […] con l’intento di trasformare il Vietnam in una nuova colonia e base militare. […] Il popolo vietnamita ama profondamente l’indipendenza, la libertà e la pace, ma di fronte all’aggressione statunitense è insorto come un sol uomo, senza temere sacrifici e privazioni. […] La nostra giusta causa gode della forte solidarietà e del sostegno dei popoli del mondo intero, compresi vasti settori della popolazione americana. Il governo statunitense ha scatenato la guerra di aggressione in Vietnam e a questa aggressione deve porre fine: questo è il solo modo di ristabilire la pace. […] Il popolo vietnamita non si sottometterà mai alla forza e non accetterà mai colloqui con la minaccia delle bombe. La nostra è una causa assolutamente giusta. È auspicabile che il governo statunitense agisca in modo ragionevole. Firmato: Ho Chi Minh.”[9]
Quando poi, il 29 settembre, percependosi ormai solo e come accerchiato nel sostenere il conflitto, Johnson propose addirittura di fermare la guerra se il Vietnam del Nord avesse accettato di negoziare[10], le valutazioni di Ho Chi Minh circa la situazione del fronte interno americano si rivelarono corrette. Vennero infatti indette dimostrazioni contro la chiamata alle armi in tutto il paese[11] e circa un mese dopo, tra il 21 ed 23 ottobre, vi fu a Washington la marcia sul Pentagono di 100.000 dimostranti contro la guerra[12]. La ragionevolezza auspicata rispetto alla sorte del Vietnam, tuttavia, si espresse nel proseguimento dei bombardamenti.
All’interno della società americana quello contro la guerra era divenuto ormai uno dei movimenti più laghi ed organizzati nella storia della nazione; nel quadro di un più vasto periodo d’inquietudine sociale riuscì a mettere in discussione la direzione presa dall’America ed i suoi stessi valori provocando uno stato di tensione a livello nazionale che condizionava le scelte del governo nel portare avanti il conflitto. Esso scaturì da organizzazioni per la pace e la giustizia sociale già esistenti in precedenza che si occupavano di diritti civili, come la Southern Christian Leadership Conference[13] del reverendo Martin Luther King, o di attività antinucleari, come il Comitee for a Sane Nuclear Policy, e gruppi studenteschi le cui due anime – quella liberal che agiva attraverso scelte elettorali ed impegno personale, quella radical che rifiutava come inutile la politica elettorale ed intendeva passare dalla semplice protesta alla resistenza vera e propria – formavano lo Students for a Democratic Society (SDS), intento a rifiutare sia i dogmi marxisti sia le sperequazioni capitaliste. Nonostante le accuse strumentali mosse da funzionari governativi e conservatori secondo cui i gruppi contrari alla guerra erano controllati dai comunisti, il movimento era chiaramente radicato nella tradizione libertaria del paese e troppo variegato perché una corrente potesse prevalere su tutte le altre. Un discorso a parte meritano ulteriori sigle e movimenti, quali quelle che facevano riferimento a Malcolm X[14] ed alle Black Panthers (Pantere Nere), quest’ultimo organizzato come partito rivoluzionario, che da Malcolm ereditarono lo spirito socialista ed antiamericano; distanti dal resto del movimento per cultura e motivazioni, per concezione dei mezzi e valutazione dei fini nell’azione politica, essi tangevano solo occasionalmente gli altri gruppi impegnati contro la guerra.
La svolta decisiva alla carriera politica di Lyndon Johnson, almeno sul fronte interno, avvenne proprio quando Martin Luther King – premio Nobel per la pace nel ’64, il più importante fra gli attivisti americani dei diritti civili, ammirato e rispettato anche in Europa – all’inizio del ’67 prese parte attiva e per nulla moderata al dibattito interno circa l’intervento americano in Vietnam, criticandolo profondamente. Ciò attribuiva certo maggiore autorevolezza alla protesta ma metteva anche in gioco tanto le conquiste civili ottenute in precedenza quanto lo stesso ruolo di Johnson di fronte al paese. L’incontro tra Kennedy e King alla Casa Bianca in seguito alla marcia del ’63 aveva infatti sancito la convergenza tra la sorte dei Democratici e quella del movimento: la capacità di realizzare quel cambiamento epocale prospettato da Kennedy appariva ora per lo meno improbabile.
Alla fine di gennaio del 1968 l’esercito rivoluzionario vietcong e quello nordvietnamita lanciarono infatti un attacco senza precedenti durante il Tet, il capodanno lunare, principale festività vietnamita. Tale attacco, noto come offensiva del Tet, si risolse in una sconfitta tattica ma in una vittoria politica in quanto riuscì a fermare l’escalation avversaria mostrando agli Stati Uniti i limiti stessi del loro impegno militare per il quale era necessario un totale riesame; la realtà dell’offensiva di scontrava con i resoconti ottimistici degli ultimi mesi mandando a picco la credibilità politica di Johnson[15]. Inoltre, mentre il generale Westmoreland, comandante in capo delle truppe in Vietnam, aveva già chiesto l’invio di altri 200.000 soldati e nello stesso giorno in cui il senatore Robert Kennedy, fratello di John, suo ex ministro della giustizia, annunciava la propria candidatura come oppositore di Johnson presentando un programma contrario alla guerra, le televisioni di tutto il mondo documentavano l’eccidio di My Lai (16 marzo ’68) compiuto da un plotone di marines contro contadini disarmati, donne e bambini. L’immagine di una America giunta in Vietnam per portare libertà e democrazia era ormai indifendibile dal suo stesso presidente che si vide costretto, sull’onda emotiva della strage immotivata e delle feroci contestazioni subite, ad annunciare l’interruzione unilaterale dei bombardamenti a nord del 20° parallelo, l’intenzione di trovare un accordo con i nordvietnamiti[16] ed infine il suo ritiro dalla corsa alla presidenza per le imminenti elezioni di fine anno.
Pochi giorni più tardi, il 4 aprile, Martin Luther King veniva ucciso a Memphis[17] provocando in tutte le più grandi città del paese ondate di rivolta selvaggia che sfociarono in decine di morti, migliaia di arresti, diversi milioni di dollari di danni rendendo necessario l’intervanto della Guardia Nazionale e l’ordine del coprifuoco. Stessa sorte toccherà a Robert Kennedy il 6 giugno, a Los Angeles, in piena campagna elettorale[18] dando vita a quella che è ricordata come la Long Hot Summer, la lunga estate calda della storia americana, misurata sull’attesa di elezioni presidenziali tra le più importanti di sempre, scontri razziali e dubbi laceranti sull’identità stessa dell’intero paese.
Tra il 26 ed il 29 agosto si svolse a Chicago la Convention nazionale del Partito Democratico. Mentre all’interno i delegati sceglievano come candidato alla presidenza il vicepresidente Hubert Humphrey, fuori, la strada divenne il teatro di uno degli scontri più duri e sanguinosi tra polizia e manifestanti che la storia americana recente ricordi: circa 25.000 uomini delle forze dell’ordine fronteggiarono ed aggredirono 5.000 tra pacifisti, militanti neri, renitenti alla leva[19]. Fu giocoforza dei Repubblicani presentare il proprio candidato Richard Nixon come l’unico in grado di ridare ordine ad una nazione sull’orlo della guerra civile e dignità ad un esercito impegnato in una guerra sanguinosa promettendo di porre fine al coinvolgimento americano in Vietnam.
L’esperienza politica di Johnson, inaugurata nel 1937, proseguita come seguace di Roosvelt e collaboratore del suo New Deal s’era dunque chiusa nel peggiore dei modi; benché sotto la sua amministrazione il paese attraversò un discreto periodo di prosperità economica – dovuta soprattutto al forte aumento della spesa pubblica causato dalle riforme e dalla guerra del Vietnam – lui si rivelò incapace di trovare un equilibrio tra il ruolo americano nel mondo della guerra fredda e la forte, giovanile esigenza di cambiamento che larga parte della società americana esigeva da un presidente democratico e kennediano. Proprio il rapporto con l’illustre predecessore ha forse finito per imprigionare Johnson in un ruolo troppo scomodo sospeso tra il problema del Vietnam – che lui contribuì a rendere un disastro – e l’emancipazione di un’intera generazione insofferente di fronte alle promesse non mantenute, alle volontà politiche poco chiaramente progressiste.
Si ritirò nel suo ranch di San Antonio, nel natio Texas, dove morì il 22 gennaio 1973.
[1] Rapporto stimato di 5 a 1.
[2] Ve ne saranno quattro tra il ’63 e il ’65.
[3] Ricerche successive fanno ritenere che questo secondo attacco con ogni probabilità non ebbe luogo.
[4] U.S. Department of State Bullettin, LI, n.1313, 24 agosto 1964, p.268.
[5] Letteralmente “tuono rotolante”, il più massiccio bombardamento strategico mai verificatosi nella storia fino ad allora.
[6] G. R. Hess, Vietnam and the United States: Origins and Legaci of War,Boston, Twayne, 1990.
[7] “Non sarò certo io il primo presidente americano a perdere una guerra”, disse Johnson ai suoi collaboratori.
[8] Gli accordi di Ginevra riconoscevano la Repubblica del Vietnam del Nord dopo la Guerra d’Indocina combattuta contro i francesi tra il 1946 ed il 1954.
[9] Ho Chi Minh’s Reply to Lyndon B. Johnson, 15 febbraio 1967, in S. Cohen (a cura di), Vietnam: Anthology and Guide to a Television History, New York, Alfred A. Knopf, 1983, pp. 147-148.
[10] Proposta conosciuta come Formula San Antonio (da San Antonio, città del Texas in cui Johnson possedeva un ranch presso il quale elaborò la proposta).
[11] La più imponente fu organizzata da militanti radicali contrari alla guerra che cercarono di far chiuder l’Army Induction Center – ovvero l’ufficio di leva – di Oakland, California.
[12] Lo scontro piuttosto aspro con la polizia, che effettuò oltre 600 arresti, appuntò l’attenzione della nazione e del mondo intero sulla disgregazione del consenso nell’intero paese. Si veda in questo senso N. Mailer, The Armies of The Night, New York, New American Library, 1968; trad. it. Le armate della notte, Milano, Baldini & Castoldi, 1998.
[13] Fondata nel 1957 contro la segregazione razziale della popolazione di colore negli stati del sud e basata sui principi della non-violenza di ispirazione gandhiana. Organizzò numerose dimostrazioni culminate nella marcia su Washington del 28 agosto ’63 cui parteciparono 250.000 persone.
[14] Assassinato in circostanze mai del tutto chiarite ad Harlem, New York, mentre teneva un discorso, il 21 febbraio 1965.
[15] L’impressione di una distruzione insensata è dipinta da un ufficiale americano che contribuì a respingere il nemico dal villaggio di Ben Tre: “Fu necessario distruggere il villaggio per salvarlo”. D. Oberforder, Tet, Garden City, N.Y., Doubleday, 1971, p. 158.
[16] I colloqui di pace presero il via a Parigi nel maggio ’68.
[17] Anche se il pregiudicato James Earl Ray è reo confesso dell’omicidio, permangono tuttora gravi lacune nella ricostruzione dei fatti.
[18] Per mano di un mitomane di origini palestinesi, Syran Syran. Robert Kennedy stava ottenendo grandi consensi in larga parte dell’elettorato ed era dato dagli analisti politici come vincente sia fra i Democratici che alle presidenziali.
[19] Un rapporto ufficiale del governo stabilì in seguito che le violenze furono cercate dalla polizia. Si veda a proposito A. Ginsberg, Chicago Conspiracy Trial Testimony, 1969, trad. it. Testimonianza a Chicago, a cura di Fernanda Pivano, EST, Milano, 1996.