Ricordo quando mio Padre mi portò allo stadio per la prima volta: era l’ottobre del 1984, Milan-Cremonese. Settore popolari, dalla parte dell’Ippodromo. Quindi oggi secondo anello arancio. I miei occhi di bambino vennero attirati dai colori delle bandiere, giganti e numerose, che garrivano alla mia sinistra. Di fronte al mio stupore mi ricordo che mio Padre disse solo: “Quella è la Fossa”.
E ricordo anche che durante la partita i tifosi intorno a noi parlavano una lingua che faticavo a discernere, il dialetto milanese.
“Mai fischiare un giocatore del Milan. Mai. Me racumandi, eh”, mi disse uno di loro saputo da mio Padre fosse la prima partita che vedevo. Era anziano, e nella mia mente poteva fare l’operaio, perché aveva una tuta blu e una specie di buco, di rientranza, sotto la gola, al posto di una tonsilla. L’amianto, avrei capito dopo.
“Semper se dà tuch per il Milan, s’intende…”, concluse.
Passato in svantaggio il Milan vinse poi quella partita, 2-1; doppietta di Mark Hateley, il mio primo idolo. I tifosi intorno a noi alternavano insulti a encomi, bestemmie a valutazioni. Spesso approssimativi per la grammatica, i loro discorsi erano però taglienti e precisi per il cuore. Mio Padre nell’intervallo tra il primo e secondo tempo mi disse una cosa importante: se anche parlano male, gli umili vanno rispettati, perché la loro è una vita faticosa. Il senso mi fu chiaro tempo dopo. Grazie Papà.
Il nostro pubblico è questo. Noi siamo i Casciavìt.
Prima di uscire mano nella mano di mio Padre riguardai ancora la Fossa. Inspiegabile per me, nessuno si muoveva, come una macchia rossonera rimaneva ad occupare le gradinate. Anni dopo avrei passato molte ore della mia giovinezza in quel luogo così strano…
La Fossa è stata per me uno dei pochi spazi liberi che ho avuto la fortuna di frequentare a Milano. Prima ancora della mattanza di Genova, dei casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, è stata un attento laboratorio sulla repressione. È stato un gruppo che non si è mai venduto alla società, che quando si è sciolto ha devoluto in beneficenza tutto quanto avesse in cassa. E affrontare oggi a Milano la vita non con la meschinità di un principio economico significa essere liberi e puri. E veri uomini.
Di questi valori l’interprete essenziale è Roberto Bertoglio. Ho avuto il piacere, e l’onore, di conoscerlo solo recentemente. Se dovessi descrivere cosa vuol dire essere veri Compagni, veri Milanisti, e soprattutto veri Uomini, direi di parlare con Roby, l’”Ultimo Imperatore”.
La sua immediata disponibilità a leggere le parti riguardanti la Fossa presenti in Milano City Blues hanno nobilitato la presentazione a Zam dell’11 maggio scorso. Grazie ancora.
Oggi, oltre alla cena del giovedì al Brutto Anattrocolo (o meglio, alla Clinica), la Fossa vive nelle manifestazioni anti-razziste, nei legami d’amicizia, nella Resistenza quotidiana. Per le strade, nei centri sociali, nelle nostre vite. Le fabbriche di oggi.
Senza la Fossa nella curva sud allo stadio oggi siamo tutti “compagni di malinconia”. Era l’emanazione di noi stessi, di una parte di noi stessi. C’è una strana analogia tra la fine della Fossa e lo sgombero di Zam, o della libreria Cuem all’Università statale. Alla fine che si oppone, chi prova a resistere alla mareggiata di decadenza etica e sociale che prosegue da vent’anni in questa città finisce escluso e allontanato.
Penso che la vita sia contraddittoria. E quindi dialettica. Nel senso che noi nasciamo nel sangue e nel dolore e inseguiamo la pace e la bellezza. E utilizziamo gli strumenti tecnologici delle multinazionali magari per denunciarne la violenza. Il mondo ultras è piuttosto contraddittorio. Il fatto che la squadra dei casciavìt appartenga a Berlusconi è molto contraddittorio. Ma la storia ha deciso così. La ferita c’è ed è anche piuttosto profonda e dolorosa. Tuttavia io credo, in un senso un po’ romantico d’intendere la questione, che la squadra sia più dei tifosi che amano i suoi colori indipendentemente dal risultato, che di un presidente che la usa a scopi propagandistici, che quando va bene è per merito suo, quando va male è colpa degli altri che non lo ascoltano. Ma questo fa parte della sua miseria morale, lo sappiamo bene.
Detto questo mi piace pensare che qualcosa della generosità casciavìt attraversi il tempo e rimanga in noi, nel nostro essere milanisti. E se è vero che i soldi di Berlusconi ci hanno fatto tornare a vincere, lo stadio pieno per l’esordio in serie B contro la Cavese non lo hanno riempito i suoi soldi ma la purezza della nostra Fede.
Ringrazio il mio caro amico Stefano Pozzoni, “Potsy”, per l’opportunità che mi ha dato con questa intervista andata in onda il 21 maggio scorso. Un abbraccio fraterno.
Un pensiero e un grande abbraccio anche e soprattutto a Paolo Scaroni e alla Sua Famiglia. Sempre al Vostro fianco.