FURTHUR
RADIO CITY MUSIC HALL, NEW YORK CITY
25, 26, 27 MARZO 2011
Il tridente della DeadHeads Italia – i fratelli Guerrino, Pier ed il sottoscritto – cala sul Radio City Music Hall verso le sei di un gelido pomeriggio newyorchese mischiandosi con un misto di candore e speranza alla folla tutt’intorno il box office. La sera prima siamo stati feriti dagl’Allman al Beacon…Per non ripetere l’avventura kamikaze del luglio scorso (vedi Busca novembre 2010) abbiamo i biglietti per l’ultima data dei Ragazzi in città, quella di domenica 27. Le precedenti, ovviamente, sold out.
Ma la nostra fede è e resterà sempre grande.
Dopo giusto un paio di circospezioni intorno l’edificio ed attraverso la folla, è un ragazzo a chiederci (!) se abbiamo bisogno di biglietti. Dall’accento – e l’indubitabile classe nel portamento (!) – confessa d’aver dedotto la nostra provenienza: DeadHead Nation, sezione Italia. Ci presentiamo, dice d’aver sposato una ragazza italiana, quindi ci confrontiamo in un’agevole alternanza di linguaggi. Morale della favola, suo grande rispetto di fronte al nostro viaggio, nostra enorme riconoscenza per i tre tickets che ci trova e vende SENZA cresta. Ci abbracciamo e ci diamo appuntamento dentro. Quando varchiamo la soglia del Radio City la felicità s’è già trasformata in godimento.
Qualche birretta per festeggiare, un proficuo giro al merchandise e siamo in sala a sfoggiare le nostre divise. L’eleganza circolare del luogo si fonde al confort tipicamente americano in una naturale armonia; dalle spalle del palco verso la sala s’allargano mezzi cerchi concentrici rischiarati da una soffusa luce rossa – il Sol dell’Avvenire che ci riscalderà…. Di tutti i templi in città, sembra esser questo il più nobile. Poi le luci si spengono ed i cuori s’allargano.
We can share, the women we can share the wine…il primo raggio, inconfondibile eppure sempre sorprendente di Jack Straw irradia la sala crescendo subito per temperatura e potenza. L’acustica di questo teatro nato giusto per la musica è nitida almeno quanto il nostro piacere, che differenze con l’Italia… L’introduzione m’appare più veloce del solito, come a tracciare da subito la tenace rotta della serata, l’imminenza della sua conquista. A New York si va di sciabola, diceva Jerry; colpite al petto, rispondiamo noi. E la band ci accontenta: la jam è decisa il giusto, Jeff Chimenti a cavallo del suo Hammond un architetto candido ma a suo modo rigoroso mentre le chitarre pungono in attesa della liberazione distante un lungo sentiero di luce.
Jack Straw from Wichita cut his buddy down / and dug for him a shallow grave / and laid his body down…un coro unico si alza alto per la sala, veramente gremita. Ed eccoci, già qua stiamo andando, ma proprio andando, al primo pezzo. Mentre ancora ci scambiamo sguardi d’intesa e stupore, l’oscillante inizio di Mississippi half-step cambia scenario verso più miti, trattenute armonie. John Kadlecik s’alterna alla voce con Bob Weir in una confidenza rassicurante; il ritornello ritardato un poco ha il merito di far sbocciare con maggior vigore la seconda ovazione. Il fatto d’aver appena iniziato mi costringe all’esaltazione.
Dark hollow segue nella dolce suggestione di Reckoning e del suo capolavoro acustico, registrato proprio qui, al Radio City, nel 1980, l’anno in cui sono nato. Ma né lui né io, vi assicuro, sentiamo il peso degl’anni; solo un grande conforto nel ritrovarci ancora, come intorno al fuoco, nel conforto della sua melodia. La ritmica folk-blues si allarga bassa quanto il fumo in un saloon, stiamo ballando tutti. La cadenza perpendicolare di On the road again ci conduce poi al graffio dell’anima di Loser dove la malinconia di Jerry mi seduce, disperato e libero, ancora una volta ferendomi per dieci lunghissimi minuti, crudele e dolce agonia di bellezza.
Di seguito, senza sosta né collisione alcuna, nuovo cambio d’anima e scenario, stessa benedizione. Sinuosa e irreverente nella sua innocenza quasi funky, la sorpresa: un’inaspettata, magica Train in vain, il raggae-punk dei Clash modellato e poi lasciato fluire a nuova vita psichedelica. Lo stupore dell’uditorio – un ragazzo mi chiede che canzone sia, poi si complimenta per la mia rapida risposta - si scioglie subito nel piacere di un trasporto generale. Qui non so cosa sia più commuovente: se la loro umiltà d’indagare ancora la musica e la sua bellezza, o la nostra delizia nell’essere meravigliati per l’ennesima volta…ad ogni modo, such a good time.
Sotto la sua coda serpeggiante nasce quindi un’alacre Might as well che va a morire in un jam potentissima condotta dagl’aghi del piano di Jeff Chimenti. Si risorge tutti nel boato che porta i Ragazzi alla pausa. Abbiamo bisogno di bere. L’ora di sosta ci permette di immergerci nella community, trovare Micheal - il ragazzo dei biglietti – e scambiare opinioni con lui, ringraziandolo ancora, sentire le storie di intere famiglie DeadHead provenienti da ogni parte della costa est. L’impressione è quella di una Repubblica Popolare a se stante governata da un reciproco, profondo rispetto: lo spazio garantito ai tapers, la tolleranza verso i fumatori, un ordine spontaneo in un disordine non confuso in cui si è soprattutto dei grandi intenditori di musica e degl’esseri umani assai educati – molti bevono e nessuna disturba, tutti sono al proprio posto. Il senso di fratellanza è evidente: la musica è il grande veicolo del nostro valore, farci vivere bene insieme.
È poi il grande padre blues ad accoglierci nel secondo set tra le sue braccia ruvide eppure sempre ospitali. Dopo il classico soul di Otis Redding per Hard to Handle, il medley repentino e corrosivo del Lupo, Smokestin’ lightin e soprattutto Spoonful. Diciamo che abbiamo messo in campo la batteria pesante di un onore lontano; a ciò non si può che proporre, complementare, dopo l’eleganza liberatoria di Bird song, la cavalcata orgogliosa e tremenda di un Other One da antologia inframmezzata e fortificata dal transito zingaresco di Spanish Jam. E poi, la rivelazione. Trasognata, lucida, incandescente e dolce. La carezza e il sogno, il mare e il suo infinito riverbero.
“È lei?”, chiedo agl’altri. I fratelli annuiscono e sorridono. La voce sofferente di Phil ci porta nello spirito della filosofia Dead, Eyes of the world. Nell’imponente scenografia virtuale una cascata di stelle sembra attraversarci mentre la band è in mare aperto. Una delle canzoni che a me personalmente ha dato di più, un inno per l’intera comunità, forse la sua epigrafe. Li accompagniamo strofa per strofa, come in una sciamanica esperienza di suoni e colori, svegliati e scopri di essere TU gli occhi del mondo…Le esitazioni, scivolate sul basso e sorrette dalle chitarre, i passi cheti di una batteria ecumenica, e siamo nella dimensione del continuo divenire, dentro eppure oltre la musica ed il suo potere. Il redentore descritto dal testo è già qui, noi lo invochiamo mentre la notte quieta ci protegge e ci spinge insieme a lei ancora un po’ più in là…
Dopo un quarto d’ora buono di questa generosa dose di magia quasi non m’accorgo di Dear prudence e siamo già sul treno di China cat, estasi vera. All’inizio sospirata più che cantata, anche un po’ acida nella sezione elettrica ma ancora più levigata nelle voci di Weir e Kadlecik, è il colpo risolutore. Senza fretta, signorile e distinta, fin quando si erge per poi diventare altro e volare nel sole potente di I know you rider, come uno sbatter d’ali poderoso e libero nel cielo infine scoperto e limpido…ti mancherò quando sarò andato…e allora andiamo fratelli, andiamo, The sun will shine in my back door some day / March winds will blow all my troubles away…proprio così, i venti di marzo soffieranno via i nostri problemi…un trionfo.
Dopo la chiusura di Not fade away, l’ovazione riporta i Ragazzi sul palco; alla solita, commossa e convincente confessione di Phil Lesh di fronte alla community, Touch of Grey ci distende giocosa sul letto della prima notte. Come un lungo bacio ed un beato sorriso già in attesa, tuttavia, di ritornare alla musica il giorno successivo.
Sabato 26 la folla che preme per entrare è ancora più larga e colorata; i ragazzi in cerca di biglietto una piccola marea. Mentre siamo in fila scorgo il nostro amico Michael attraversare rapido la strada, lo fermo, lo saluto e gli dico semplicemente “we need another miracle”…tempo zero e mi presenta due sue amiche, saltan fuori due biglietti, abbraccio tutti e mi confronto con gli altri. Il fratello Guerrino si sacrifica generoso e parte verso il Beacon Theatre destinazione Allman Brothers, entriamo Pier ed io proprio quando si spengono le luci.
E l’album di famiglia si apre, come la valigia dei sogni. Golden road è un abbaglio per freschezza e profondità, Viola lee blues danza con vesti ipnotiche mentre l’Alligatore già nel primo set indica la serietà della potenza espressiva cui la serata tenderà. Sittin’ on the top of the world nel suo caleidoscopio ritmico spinge lungo un sentiero di angoli ed abbagli nel ricordo di Pigpen evocato poi anche da Alice d. millionaire ed il caotico cerchio d’emozioni di Cream puff war, tutte pietre miliari degl’esordi. Turn on your lovelight, è la porta infine spalancata, attraverso il passato, nel futuro imminente.
Le montagne della luna ci accolgono nel mezzo di Dark star – non so se mi spiego – mentre sul videowall si susseguono le immagini di Bear, al secolo Augustus Owsley Stanley III, il mitico tecnico del suono e della fantasia chimica dei Dead, recentemente scomparso. Vicino a lui Jerry. Un deadhead al nostro fianco piange a dirotto, noi lo rincuoriamo mentre l’ingresso a Terrapin varca, semplicemente,i confini della musica popolare. È la nostra preghiera, la recitiamo sereni senza perderne un verso, infrangerne un’intuizione, tradirne un segreto. Con Stella blue si ritorna sulla terra per abbracciare Jerry ed il suo candore, ancora una volta, di cristallina nostalgia.
Help on the way compare sulla scena nella promessa immediata di generare un altro dei nostri figli prediletti. Quando arriva Franklin’s tower il ragazzo che prima piangeva ci sorride e mima con le braccia lo scorrere di un’onda… “You feel it?”, chiede. Ci puoi giurare…
Il battito in leggero levare della sorgente già risveglia le Muse, la mistica evocazione del testo traccia nel petto l’indizio di una liberazione mentre la successiva, agevole scalata della pulsazione, audace ma sempre elegante, ci proietta altrove. Da un po’ abbiamo chiuso gli occhi, dall’inizio stiamo ballando. Quando torno a guardare, commosso, petali psichedelici infiniti nello scomparire e ritornare nascono e si trasformano sul video davanti a noi mentre la voce faticosa di Phil è soverchiata ma come protetta da quella gioiosa ed uniforme del Radio City. Tutti noi spargiamo via la rugiada, che gioia.
Solito tripudio, e One more Saturday night è la doverosa chiusura, aspra ed orgogliosa, del nostro sabato sera newyorchese.
La terza sera abbiamo appuntamento con Michael e ritroviamo altri deadhead conosciuti quest’estate, sembra una rimpatriata. Michael ci preannuncia la presenza di Elvis Costello sul palco come ospite, insieme anche ad altri, dice. E così sarà. Larry Cambpell, chitarrista della Levon Helm Band – vista e raccontata da Guerrino quest’estate, vedi Busca ottobre 2010 – interpreta per noi una Chest Fever della Band di epica potenza, acre e bluesy. E dopo la paura nel petto, la previsione del nostro amico s’avvera trasportata dall’esultanza di tutto il pubblico: Elvis Costello con cappello ed occhialoni, per Tennesse Jed. Il coro siamo tutti noi.
Da qui, in una sequenza unica, come un medley infinito di folk-rock sfogliamo le pagine e gli anni dei petali del grande fiore Dead, un profumo che non sembra conoscere fine. American Beauty è la fragranza, nei contenuti e nell’evocazione, sparsa con maggior dovizia; Friend of the devil e Ripple – in cui compare per la prima volta, in chiusura del set, anche Diana Krall al piano – le strade festose in cui viaggiamo col vento nei capelli.
In precedenza Ship of fools, nel cui cuore la Fortuna custodiva Must have been the roses, di nuovo lo spirito di Jerry dunque e Reckoning, avevano tessuto d’ulteriore suggestione il filo della grande musica americana, mentre Cassidy, purissima e potente, ci aveva spiegato cosa Aristotele intendesse per catarsi.
Nella pausa prima del secondo set abbiamo veramente bisogno di riprenderci. Poi sul palco ritorna la band nella sua formazione di partenza. La dichiarazione verticale ed ancora più elettrica di St. Stephen preceduta dalla mesta e toccante Sunrise ad opera di Theresa Williams, moglie di Larry Campbell, anch’ella della Levon Helm Band, ci frusta nel risveglio che precede la rivelazione: Uncle john’s band, Unbroken chain, The wheel, Morning dew, Sugar magnolia.
Dolce il ricordo per sua natura ma, sinceramente, meglio viverle che parlarne. Forse l’highlight delle tre serate. Ad ogni modo, il violino di Larry Campbell ritornato sul palco dona ulteriore elevazione alla bellezza floreale di Uncle john, cantata da tutti, where does the time go, è proprio la domanda la farci… The wheel è la speranza, prima evanescente, poi distinta, infine la forma stessa della nostra luce che cresce, splende, illumina, rinvigorisce, libera fino alla commozione.
Quindi John Kadlecik fino a quel momento prezioso filo di congiunzione tra Weir e Costello, assurge al centro della scena; la similitudine con Garcia nel tono sofferto della voce e nella postura fisica sul palco, immobile ed estatica, è assolutamente naturale oltre che assai convincente. Il lamento eroico di Morning dew ci apre e ci ferisce esiziale come poche altre volte dopo che The wheel ci aveva sedotto col suo candore. Sembra d’assistere ad un sacrificio simbolico – bellezza e perdizione, due generosi, cechi amanti.
Sugar magnolia è l’ultima cura che non vorremmo far terminare. La sua purezza ci scorre nelle vene. Esausti ma più leggeri assistiamo al ritorno sul palco di tutti gli ospiti per una memorabile, tripla chiusura di spettacolo, Days between, una corale Fever, la preghiera di Attics of my life. Non ho più niente da dire, ma solo da ringraziare mentre la banda al completo s’inchina davanti al pubblico per un applauso interminabile. La coda finale per comprare gl’instant live l’ultima piacevole fatica della nostra vacanza rock.
Ancora una volta i Ragazzi si sono dimostrati autentici scienziati dell’arte di mostrarci un altro mondo, una più profonda coscienza, individuale e collettiva. Per quanto mi riguarda, il miracolo continua ad accadere. Un pensiero ai miei compagni di viaggio, i fratelli e quelli appena conosciuti, un altro al gelido ma solare marzo della Grande Mela. Alle sue opportunità, ai suoi dolori. Alla bellezza del fenomeno sociale dei Grateful Dead, alla serietà ed alla gioia del suo popolo.
Il Morto è ancora vivo, ragazzi, e lotta insieme a noi…shake your bones, baby!
Furthur 25 marzo
1st: Jack straw, Mississippi half-step, Dark hollow, Stagger lee, On the road again, Loser, Train in vain, Might as well
2nd: Hard to handle, Smokestin lightin, Spoonful, Bird Song, The other one, Spanish jam, The other one, Eyes of the world, King Solomon marbles, Dear prudence, China cat sunflower, I know you rider, Not fade away.
Encore: Touch of grey
Furthur 26 marzo
1st: Golden road, Viola lee blues, Alligator, Mingleewood, Sittin on th top of the world, Alice d. millionaire, cream puff war, Turn on your lovelight
2nd: Playin in the band, Born cross eyed, Dark star 1, Eclipse, Mountains of the moon, Dark star 2, Terrapin suite, Stella blue, Help on the way, Slipknot, Franklin’s tower
Encore: One more Saturday night
Furthur 27 marzo
1st: Samson Delilah, Chest fever (con Larry Campbell), Tennesse jed (Elvis Costello)—, Friend of the devil, Ship of fools, Must have been the roses, Ship of fools, Cassidy, Ripple (Diana Krall)
2nd: Trowin stones, Sunrise, St. Stephen, What become of the baby, The eleven, Uncle john’s band, Unbroken chain, The wheel, Morning dew, Sugar magnolia
Encore: Days between, Fever, Attics of my life