È capitato a tutti, credo, di pronunciare almeno una volta la triste frase “meritava di più”, riferita ad un amico, un artista, magari un giocatore. S’intende sottolineare una sorte infelice, quella data dal talento non supportato dalla fortuna che avrebbe meritato. I Flamin’ Groovies nella loro cinquantennale carriera hanno affrontato spesso gli strali dell’avverso destino. Cambi di formazioni, abbandoni, rifiuti, insuccessi, problemi di droga. Nati e cresciuti nel floridissimo giardino della San Francisco anni ’60 erano però fiori diversi, emanavano da subito aromi particolari. Mentre Grateful Dead, Jefferson Airplane, Big Brother & The Holding Company, Quicksilver Messenger Service e Moby Grape scivolavano tra psichedelica e blues, i Groovies – ammantati dalla fluidità compositiva di Cyril Jordan – si abbeveravano alle radici del rock anni ’50 di Chuck Berry e Little Richard, nell’eco di Beatles e Stones.
E dunque mentre quei gruppi saltavano sul treno del futuro – o meglio, lo conducevano a forza di sperimentazione e potenza, generando anche, nel caso dei Dead, una sorta di società libertaria itinerante – i Groovies si cimentavano con il duro ruolo degl’incompresi. Con le loro giacche di pelle scura, gli occhiali da sole, gli stivali da teddy boys incarnavano alla perfezione l’anima più dura del rock e della ribellione giovanile – la libertà del non avere niente, o molto poco, di vivere con difficoltà della propria arte. E così hanno proseguito, senza lamentarsi o tradirsi, apprezzati e rispettati da colleghi e critici, guadagnandosi col tempo anche un discreto pubblico, soprattutto in Europa. All’interno del grande circo del rock decaduto spesso nel narcisismo glam, i loro spettacoli detenevano la concretezza primordiale della rivolta – estetica, esistenziale – e la maestria vera di essere duri, diretti, puri e insieme semplici.
L’ingresso nel ’71 di Chris Wilson apportò maggiori dolcezze melodiche, sull’esempio dei Byrds, ma anche, grazie alla sua voce più elastica ed eclettica, possibilità di strigliate in stile Jerry Lee Lewis. Il basso incombente di George Alexander completava una front-line di tutto rispetto. Shake some action del ’76, all’alba del punk, la loro miglior creazione ed il maggior successo. Da lì in poi, ottimi concerti, molti chilometri ai margini del grande business, e quindi pochi soldi. Infine, stanchi e delusi, l’abbandono del sogno e il ritiro.
Fino ad oggi, “reunion and farewell tour”, ovvero tour di riunione e insieme d’addio.
Quando vedo salire i tre eroi sul palco, ormai settantenni, accompagnati da un giovane batterista, non posso che gioire. Sono affabili e sorridenti, sembrano felici e dimostrano subito di essere pronti. Colore più diffuso il nero, Cyril Jordan anche con gli stivali. Giusto un ringraziamento veloce al pubblico italiano e si parte. Dal primo accordo sono una bomba di potenza, educazione e dolcezza. I can’t hide ci scalda subito lasciando la loro tipica firma di distensione e scioltezza. Il concerto ripercorre in un’ora e mezza – senza pause né cadute, sempre perfetti e coordinati – la loro storia e quindi quella del rock. L’esplosione degli anni ’50, la dolcezza folk dei ’60, l’elettricità del ’70. È un’antologia di cosa dovrebbe essere una band.
Quando il concerto finisce una piccola ovazione li accoglie, noi tutti li ringraziamo. Penso ai tempo passato, ai sogni inseguiti, agli onori raccolti.
Non vorrei più pronunciarla quella frase “meritava di più”, né vorrei che qualcuno la dicesse riferita a me. Ma se dovesse capitare, penserei, tra gli altri, ai Flamin’ Groovies, alla loro tenacia, alla loro integrità, a quel sereno orgoglio di continuare a provare, perché il sogno può esser lontano e la sua mancanza ferirti, e questa è la vita, perché oltre al fine conta il movimento, il rimanere onesti, il rimanere se stessi. Cercatori di bellezza, responsabili d’armonia. E i Flamin’ Groovies lo sono stati.